FARE L'insegnante n. 5/2021/ 2022

Rivista bimestrale di Formazione e Aggiornamento professionale destinata a dirigenti e docenti delle scuole di ogni ordine e grado impegnati nel miglioramento dell'offerta formativa

 

La ricerca si fa a scuola

Editoriale di Ivana Summa

 

Le numerose - ed accreditate scientificamente - ricerche in ambito internazionale che riguardano le neuroscienze ci dicono cose interessanti su come si apprende. In particolare, abbiamo già ospitato in questa rivista (n. 6 del 2020/2021) la recensione di un volume - Mary Helen Immordino-Yang, Neuroscienze affettive ed educazione, Milano, Raffaello Cortina editore, 2007 - che è particolarmente rilevante per chi insegna e per chi apprende, e non solo in ambito scolastico. Tra le tante indicazioni interessanti che possiamo trovare in questo volume, desidero mettere in evidenza la seguente: l’ambiente mentale per un apprendimento efficace dipende dallo “stato di curiosità”, il quale è un processo intrinsecamente articolato, implicito ed emotivo, capace di stimolare la nostra comprensione di ciò che stiamo cercando mentre lo stiamo creando. E, invece, l’autrice ci fa notare che molte delle nostre pratiche educative tradizionali minano direttamente lo sviluppo della propensione di una persona verso uno stato mentale curioso: “uno stato curioso è quello in cui esplori e noti cose nuove, e segui ciò che noti... e provi a giocarci... e ti chiedi se effettivamente lo capisci e lo apprezzi... poi, torni al punto iniziale e esamini nuovamente ciò che pensavi di sapere, potenzialmente con una nuova capacità di collegarlo a qualcos’altro”. In altri termini, la curiosità è un’emozione e le emozioni costituiscono un repertorio di comportamenti e di conoscenze che consentono alle persone di rispondere in modo adeguato alle diverse situazioni, così come, senza le emozioni, le persone non sarebbero in grado di manifestare preferenze, interessi, motivazioni, moralità, senso della bellezza, creatività, scopi.

Quando gli alunni, in un’aula ascoltando l’insegnante o a casa con un libro davanti, apprendono meccanicamente, in assenza di motivazione o di interesse personale o di rilevanza per il mondo reale, di curiosità, è probabile che, nonostante l’impegno e la fatica, non sapranno trasferire nell’esperienza concreta le conoscenze che hanno appreso. In buona sostanza, sulla base di questi studi, possiamo affermare che le emozioni sono il “timone” che guida il pensiero e che la curiosità è un’emozione che si manifesta quando si realizza un “apprendimento per scoperta”, come ci hanno insegnato Bruner e Dewey, tanto per citare i più noti tra gli insegnanti. E la scoperta, frutto della curiosità che spinge a ricercare, è una delle tappe del metodo scientifico, basato sulla ricerca e sulla sperimentazione.

In questa prospettiva si inserisce il contributo di Maria Posarelli che, da alcuni anni, partecipa al progetto Globe che, al di là degli scopi istituzionali, ha rivoluzionato la didattica della chimica, proprio realizzando attività laboratoriali che hanno alimentato una curiosità non fine a se stessa e non effimera, intesa proprio come voglia di conoscere in vista di uno scopo. Non solo, perché la ricerca fa lavorare in gruppo e in contesti motivanti (il fiume che attraversa il territorio), consente di collegarsi con altri che operano in continenti lontani ma che fanno ricerca sugli stessi oggetti: gruppo fra studenti di classi diverse e fra costoro e ricercatori accademici, in un’ottica di cooperazione e di responsabilizzazione reciproca.

Fanno ricerca anche gli insegnanti di un istituto di istruzione di 2° grado, che vogliono comprendere come la valutazione possa migliorare l’apprendimento dei loro studenti e mentre cercano di risolvere questo problema, apprendono dalle loro stesse riflessioni. E di questo tratta l’articolo di Mercedes Tonelli che ci fa comprendere come un’attività di formazione - quando parte dalle pratiche quotidiane e dalle idee ed opinioni che le guidano - possa trasformarsi in ricerca valutativa. E non è una ricerca prodotta da altri e da applicare in ottemperanza a qualche decreto ministeriale, ma una ricerca che rende protagonisti coloro che debbono “formarsi”, avvalendosi del proprio patrimonio professionale. Di un’attività di ricerca ci parla anche il contributo di Erika Di Stefano che ha come oggetto l’orientamento tra la scuola secondaria di 1° e 2° grado in un territorio circoscritto e in un’ottica di patti di comunità. Viene riportato un percorso formativo di una rete di 18 scuole che, mettendo a confronto le loro pratiche e riflettendo sulla loro efficacia, ha funzionato come “incubatoio di innovazione”, finalizzato a garantire continuità e unitarietà nel percorso formativo.

Anche il contributo di Fiorenzo Ferrari si inscrive in questa prospettiva, avendo in comune con i precedenti l’approccio narrativo che è sempre più utilizzato come modalità di intervento per implementare cambiamenti culturali in contesti di lavoro. Le storie organizzative rappresentano potentissimi e straordinari “contenitori di senso” che consentono all’organizzazione di mantenere la sua integrità e non frantumarsi sotto i colpi del cambiamento e delle turbolenze a cui sono costantemente esposte. Narrare la scuola dentro le nostre scuole, e dagli stessi protagonisti che quotidianamente la scrivono, agisce sulla costruzione di significati e sulla strutturazione autentica di un’identità istituzionale condivisa, che non può essere certo quella contenuta in un Piano dell’offerta formativa. La narrazione crea una continua, profonda ed articolata relazione tra emozione e cognizione, ma anche tra l’autonomia didattica, organizzativa e di ricerca/sperimentazione/sviluppo.

Ma la comunità educante è composta da attori molto diversi e sfaccettati che si trovano ad “abitare” la scuola portando con sé i loro bisogni, aspettative, caratteristiche e bagagli personali di esperienze. Ogni scuola è un vero e proprio “villaggio” dove ognuno ha un ruolo specifico e dei compiti specifici ma dai confini labili perché, come dice un famoso detto africano, “you need a village to raise a child” (hai bisogno di un villaggio per crescere un bambino). Per elaborare in modo partecipato un patto educativo tra tutti questi abitanti del villaggio è necessario mettersi in cammino insieme sullo stesso sentiero che è quello della ricerca, intesa come riflessione su quello che si fa per istruire e formare i nostri giovani e su quello che si potrebbe fare per migliorare. L’apprendimento è un viaggio che riguarda tutti: gli studenti che sono coloro che hanno la valigia in mano e coloro che li accompagnano.

Proprio per questo è importante il contributo di Andrea Porcarelli, che ci fa riflettere sul ruolo delle discipline pedagogiche nella formazione dei dirigenti scolastici e, alla luce anche di quanto finora argomentato, è particolarmente rilevante quanto afferma: “Per coloro che operano professionalmente in ambito educativo e didattico, però, non è più sufficiente limitarsi ad una cultura dell’educazione che rimanga implicita, o semplicemente appoggiata ad alcune delle “vulgate formative” più diffuse in un certo momento”. È essenziale che tale cultura divenga critica e consapevole perché soltanto in tal modo sfugge al senso comune e può rappresentare quel “differenziale pedagogico” che ne testimonia l’autorevolezza professionale. E tutto ciò non viene proposto in vista della prossima imminente tornata concorsuale, ma come valore professionale diventato molto marginale in tutte le figure professionali della scuola, a vantaggio di presunti prioritari aspetti di natura amministrativa o gestionale. In fondo, la leadership educativa si fonda sull’autorevolezza proprio in ambito educativo!

Infine, ci preme citare il contributo di Stefano Dani che si presenta come un genitore, presidente di un Consiglio d’Istituto ed oggi portavoce nazionale del Coordinamento dei presidenti del Consiglio d’Istituto dell’Emilia-Romagna. è importante questa voce perché i genitori sono abitanti non periferici del villaggio educativo intitolato ad ogni nostra singola scuola e, nonostante ciò, sempre più emarginati dentro organi collegiali che erano già burocratizzati prima dell’autonomia scolastica. E non è necessario ricordare come la delega contenuta nell’art. 21 della Legge n. 59 del 1997 - ben 25 anni fa! - non sia mai stata onorata con una legge parlamentare. X

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