Avere una visione della scuola

Editoriale di Ivana Summa

Vision, Mission, finalità, obiettivi, progetti sono termini molto usati nei PTOF delle nostre scuole e accade, inevitabilmente, che vengano utilizzati in modo ambiguo e prolisso, anche a causa di uno stile letterario. Cosa hanno in comune questi termini, oltre a far parte di un “managerialese” di maniera? Le prime due sono parole calde, che sconfinano nel sogno le cui caratteristiche sono l’inafferrabilità, il potere evocativo di un qualcosa senza confini e la capacità d’empowerment. Gli altri, invece, sono parole fredde ed evocano azioni concrete, scelte progettuali e programmatiche, decisioni, tanto che a volte degenerano in incubi e, più spesso, lasciati nel limbo delle intenzioni dichiarate e non agite. Analizzando sul web i PTOF delle scuole ci si imbatte, infatti, in decine di pagine dalla cui lettura difficilmente emerge con chiarezza la vision, che viene confusa con la mission, per non parlare del resto che si presenta in modo talmente diffuso in decine e decine di pagine, tanto da scoraggiare anche i più appassionati. Ciò, inevitabilmente, comporta una difficile operatività di tale documento che, come prevede la norma, oltre a rappresentare la carta di identità dell’istituto, dovrebbe guidare le delibere collegiali le azioni educative e didattiche dei docenti e le attività del dirigente scolastico.

Si rende necessario, dunque, introdurre qualche elemento di chiarezza precisando che la vision definisce lo scenario e il futuro desiderato dall’organizzazione, ma la sua definizione non deve essere intesa come una semplice dichiarazione di fantasia o una finalità generica. La vision, infatti, racchiude la prospettiva all’interno della quale un’organizzazione agisce, come se fosse un orizzonte: non è raggiungibile ma è disegnato e sognato per conferire senso anche alle azioni quotidiane. Ed è proprio il sogno che ci spinge verso l’irraggiungibile orizzonte che può avere diverse sfumature a seconda della direzione dalla quale si guarda. L’elaborazione della vision non può prescindere da una semplice domanda: “come/dove vorremmo vederci tra qualche anno?”.

Ma la visione altro non è che lo sfondo all’interno del quale collochiamo la nostra mission. Se attraverso la vision si definisce chi siamo e dove sono dirette le nostre azioni, con la mission si definisce concretamente come intendiamo arrivarci. La mission, dunque, definisce il ruolo specifico dell’organizzazione per la realizzazione della propria vision. Ogni organizzazione ha una missione e questa deve essere esplicitata per indicare gli sviluppi futuri e per definire le proprie aree di intervento.

La mission è il cammino, la strada, le tappe che l’organizzazione vuole intraprendere per andare verso quell’orizzonte definito dalla vision. Serve per individuare le strade da percorrere, definire le risorse da impegnare durante il percorso, stabilire le tappe di monitoraggio e le persone coinvolte. La differenza principale tra vision e mission è che la mission si correla con ciò che deve essere compiuto; la vision cerca nuove creazioni.

Questa premessa non vuole essere un contributo fine a se stesso, perché è scaturita dalle preoccupazioni che ho maturato nei confronti dei progetti riguardanti il settore dell’istruzione e ricerca del PNRR, che ammonta a ben 19,44 miliardi di euro. Progetti la cui matrice comune è l’innovazione perseguita attraverso cambiamenti indotti da specifiche azioni – come quelle dell’ edilizia scolastica e del reclutamento e la formazione dei docenti - di cui si ipotizza un formidabile impatto sulla qualità dell’offerta formativa. Ma, per realizzare i cambiamenti attraverso i fondi del PNRR, è necessario avere elaborato una visione didattico-pedagogica che ispiri i processi di cambiamento che i progetti dovrebbero provocare. A titolo di esempio, come ripensare ambienti di apprendimento innovativi e la conseguente organizzazione della didattica? È sufficiente di innovare riprogettando le aule e gli ambienti didattici con monitor e schermi digitali, device personali, webcam, software e piattaforme, tavoli multifunzione, app, tecnologie dedicate ad un apprendimento ibrido, pensando che tutto ciò impatterà inevitabilmente sulla didattica quotidiana?

Per giungere alla definizione di questi progetti, oltre alle linee guida ministeriali che, ovviamente, dettano specifiche procedure amministrative, siti e riviste dedicano ampi spazi in cui esperti del settore – soprattutto architetti con esperienza in questo campo e conoscitori dei processi di apprendimento dell’età evolutiva, nonché formatori esperti di didattica digitale e dintorni - con ciò indirizzando inevitabilmente le scuole verso scelte di natura pedagogica e didattica che non sono nate e cresciute all’interno della comunità scolastica. È facile prevedere che questa colonizzazione pedagogica indotta dai cospicui finanziamenti provocherà fenomeni, positivi o negativi, a seconda che le scuole abbiano davvero maturato una visione pedagogica propria e convintamente diffusa tra i docenti. Per tutte le altre istituzioni scolastiche potrà verificarsi qualche conversione di alcuni insegnanti che hanno nel proprio DNA professionale la propensione al cambiamento maturato attraverso la riflessione costante sulle proprie pratiche didattiche ed educative, intesa come ricerca e sperimentazione didattica e metodologica.

Ma, se l’autonomia delle scuole si manifesta in modo zoppicante lo dobbiamo sia a questo accudimento interessato di soggetti esterni alla scuola, sia alle ultradecennali politiche scolastiche che hanno portato ad un dissesto del sistema scolastico. Per tutte, mi preme citare il precariato del personale docente, le reggenze dei dirigenti scolastici, l’assegnazione delle risorse in modo apparentemente “giusto” ma che provoca effetti devastanti in territori particolari come la montagna e le piccole isole. Questi fenomeni, frustranti e deleteri per il personale scolastico, non sono governabili dai singoli istituti scolastici e compromettono fortemente gli sforzi di innovazione messi in campo.

Passando ai contributi di questo numero della rivista, desidero sottolineare che dovrebbero essere letti alla luce di questa premessa perché, nonostante tutto, rappresentano quella parte della scuola che non si arrende di fronte alle difficoltà strutturali, sia continuando a fornire spunti di riflessione ai docenti ed ai dirigenti scolastici, sia testimoniando esperienze didattiche frutto della personale ricerca dei docenti e, perché no, dell’entusiasmo con cui lavorano.

Tra i primi segnaliamo i contributi di Ludovica Tramontin, Maria Rosaria Mazzella, Ivana Summa che, con focalizzazioni diverse, ci fanno approfondire la vastissima tematica della leadership educativa che, peraltro, viene studiata in pillole soltanto in occasione della preparazione per superare il concorso a dirigente scolastico, e poi -ahimè- drasticamente messa in soffitta dai dirigenti in affanno per i compiti amministrativi. L’articolo di Tramontin, dopo aver tracciato le coordinate essenziali che riguardano le trasformazioni sociali a livello globale e le conseguenti ripercussioni sui sistemi educativi, ci porta a conoscenza che questa crisi educativa ha indotto “la comunità internazionale ad interrogarsi sulla necessità di ripensare alcuni capisaldi del sistema educativo e a delineare una vera e propria strategia per mobilitare un’azione collettiva verso una trasformazione dell’educazione nel quadro dell’obiettivo 4 (Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti) dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU ”. Il summit tenutosi a New York nel 2022 ha pubblicato un appello ad esercitare la leadership individuale e collettiva dei membri della comunità educante, in particolare agli insegnanti, chiedendo loro il passo importante di “trasformare se stessi per diventare degli attori di cambiamento” (changemaker). L’ambizioso obiettivo politico di trasformare l’educazione inizia dunque con un cambio di percezione di se stessi catalizzando le volontà, abilità e attitudini al fine di diventare leader nel generare cambiamenti positivi per il bene comune.

Per la parte riguardante le esperienze educative ci preme segnalare i due contributi di Patrizio Vignola: il primo si concentra sulle premesse teoriche – partendo dalla progettazione a ritroso di Wiggins e McTighe - alla base delle esperienze didattiche che ha realizzato nella scuola primaria ma che sono estensibili a tutti i gradi di scuola. Il secondo riporta, in modo molto lineare, una significativa esperienza che, di fatti, dimostra come sia estremamente gratificante - e non solo per gli alunni - creare ambienti di apprendimento motivanti, con e senza l’uso di supporti elettronici che dal prossimo anno invaderanno le nostre scuole.

Cambiamenti ed innovazioni hanno bisogno di professionisti riflessivi, ricercatori ed educatori. Buona lettura!

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